La mia creatività

Non è mai facile parlare di se stessi,  soprattutto quando concerne una sfera così nebbiosa come quella della propria creatività.

La creatività è un atto di dolore alla stessa stregua del parto.

La creatività si fa largo attraverso la nostra stessa pelle e ne esce fuori creando cicatrici.

 

Per me creare è dolore.

E’ sofferenza.

Le cose migliori le ho scritte quando stavo talmente male da non vedere neanche la tastiera del pc.

Le mani andavano sole, in un flusso di coscienza totale che lasciava andare tutto fuori come fosse vomito.

La felicità rende creativamente sterili o,quantomeno, io non sono capace di sfruttarla rendendola interessante.

 

Per citare le parole di una canzone che mi è molto cara:

 

Oh, I need the darkness,
the sweetness,
the sadness,
the weakness
Oh I need this
I need a lullaby,
a kiss goodnight,
angel, sweet love of my life
Oh I need this

 

E Natalie Merchant, l’artista immensa che ha scritto queste parole, ha fotografato perfettamente il mio processo creativo: il bisogno di oscurità, del nero nel nero, nessun blu a blandirmi.

 

Solo nero.

Non sai cosa potrai trovare nel buio: magari qualcosa di felice, più spesso qualcosa di terribile ed in agguato in qualche angolo del tuo animo.

Perchè la malinconia è un valore quando non diventa malattia.

Perchè le migliori opere sono nate da artisti depressi.

E questa è una realtà.

Pensate a Van Gogh ed al suo orecchio.

 

A volte bisogna ricreare quella sensazione di stretta allo stomaco per far si che qualcosa accada.

Ci si nutre del dolore che si prova e lo si traduce in scrittura, fotografia, disegno, musica… quel che è.

E questo pasto nudo che ci concediamo di tanto in tanto, quasi mai ci sazia del tutto: rimane sempre quel languore in profondità, quella fame di dolore che fa si che noi si rimanga sempre sul filo di una creatività cannibale di se stessa.

 

E questo è quanto.

 

-i500passi-

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